Blur – The Magic Whip

Blur – The Magic Whip

7 Agosto 2015 Off Di Massimiliano Viti

blur-the-magic-whipUn sapore orientale, come l’insegna della gelateria che compare sulla copertina, per un evento unico:
il ritorno dei Blur dopo sedici anni dall’ultimo lavoro con la formazione originale e dodici da “Think Tank”.
The Magic Whip” è l’ottavo album in studio della band, costruito praticamente in 5 giorni.
Nel 2013, durante un tour in Giappone, saltarono alcune date e così Damon Albarn e soci decisero di suonare lo stesso ma all’interno di un improvvisato studio di registrazione.
Tracce riesumate e rielaborate fino all’annuncio del nuovo disco in diretta mondiale su Facebook.
In questo nuovo album ci sono i Clash, David Bowie, il britpop, i Blur del passato e quelli del presente.

 

Non proprio un disco omogeneo, con un concetto di fondo ben preciso, ma una selezione di brani nei quali si ascoltano tutte le precedenti esperienze musicali della band, vedi Gorillaz.
Non è un prodotto perfetto ma ha un livello che altri musicisti non riescono nemmeno lontanamente sognare.
The magic whip si apre con “Lonesome street”, una delle migliori tracce del disco, molto vicina ai Blur del passato, con un bel riff, la voce caracollante e qualche cambio di ritmo che la rendono particolarmente piacevole.
“New world towers” ci presenta l’altra faccia del disco, quella più orientale, dove lo smog delle metropoli contribuisce a creare atmosfere molto rarefatte.
Mi riferisco a “Ice cream man” e alla parte iniziale di “Thought I was a spaceman“, brano in cui il riferimento a “Space Oddity” di David Bowie sembra piuttosto evidente.

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In “Go out” i Blur sembrano moderni Clash, con un riff simile a “Rock the casbah”. “I broadcast”, sesta traccia dell’album, è destinata ad essere un pezzo forte nei concerti, insieme a “Ong Ong”. “My terracotta heart” è un brano malinconico e sincero con il quale Albarn mette a nudo il rapporto con il chitarrista Graham Coxon. Malinconia che ritroviamo in “There are too many of us”.
Poi si cambia totalmente con “Ghost Ship”, piccolo capolavoro anni ’70 con giro di basso e chitarrina funk molto rilassata. “Pyongyang”, forse non a caso, è piuttosto spettrale mentre “Ong Ong” è un’altra perla dell’album.
Brano coxoniano con decise reminiscenze Beatles. “Mirrorball” è una ballad che tocca il western e profuma di Morricone.
Spero solo di non dover aspettare un altro decennio prima del prossimo disco perché “The magic whip” lo posso (ri)ascoltare al massimo per 4 o 5 anni…